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Una proposta europea per il Ministro Tria sul rilancio degli investimenti pubblici

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Nel quadro del nuovo governo il Presidente del Consiglio e i suoi vice Di Maio e Salvini hanno monopolizzato la scena con le loro affermazioni di questi giorni. In particolare colpisce quella di Salvini sulla flat tax e l’idea che sia giusto che chi guadagni di più risparmi di più – ovvero che sia giusta la regressività della tassazione, quando la Costituzione ne prescrive la progressività. Mentre Di Maio ha ribadito che verranno disinnescate le clausole di salvaguardia per evitare l’aumento dell’IVA. Le affermazioni di entrambi implicano un significativo onere finanziario, ma nulla è stato detto sulle coperture. Anzi, in un Paese con un’altissima evasione ed elusione fiscale Di Maio propone all’Assemblea di Confcommercio di smantellare alcuni degli strumenti di contrasto sulla base del principio “siete tutti onesti”, sconfessato da tutte le statistiche.

Nel frattempo il prof. Tria, nuovo Ministro dell’Economia, ha pubblicato con Pasquale Lucio Scandizzo un articolo in cui sottolinea la necessità di rilanciare gli investimenti pubblici per far ripartire la crescita. Unito a un suo articolo del mese scorso, si deduce eventualmente anche in deficit. L’articolo sugli investimenti offre un’analisi ricca di spunti assolutamente condivisibili e rispetto ai quali sorgono spontanee alcune domande e riflessioni, centrali in vista del prossimo Consiglio Europeo di giugno e della riforma dell’Eurozona. Scandizzo e Tria sostengono giustamente che il calo degli investimenti ha un impatto strutturale sulla crescita potenziale e sulla produttività. Ed è proprio l’assenza di crescita della produttività negli ultimi 20 anni che determina la bassa crescita italiana. Anche i settori individuati come prioritari per gli investimenti pubblici appaiono condivisibili: infrastrutture e capitale umano, ovvero istruzione e ricerca. E si rammaricano che il Piano Juncker non sia grande abbasta per soddisfare il bisogno di investimenti pubblici dell’Unione.

È assolutamente vero che in Italia dalla crisi del 2008 c’è stata una drastica riduzione degli investimenti pubblici, oltre che di quelli privati. Ma è altrettanto vero che i fondi europei, che sono fondi disponibili per gli investimenti specialmente in infrastrutture e capitale umano, non vengono utilizzati pienamente, specialmente nelle Regioni che ne avrebbero più bisogno, quelle del Mezzogiorno. Alcune di esse hanno dovuto restituire parte dei fondi del periodo 2007-2013, e sono piuttosto indietro nell’utilizzo di quelli del periodo 2014-2020. Una delle ragioni potrebbe essere la criminalità organizzata, per la quale è meglio che tali Regioni usino i pochi fondi propri con regole nazionali, piuttosto che impiegarli a co-finanziamento dei fondi europei, che implica di usarli tutti con le regole europee, che rendono più difficile l’infiltrazione malavitosa. L’alternativa è la mera incapacità dell’intera classe dirigente, politica e amministrativa, delle regioni coinvolte. Resta il fatto che dall’ingresso nell’UE nel 2004 la Polonia ha costruito la sua intera rete autostradale di oltre 3000 km usando i fondi europei. La Sardegna, dopo oltre 30 anni di Fondi strutturali, non ha nessuna autostrada, e anche recentemente il raddoppio dell’orientale sarda è stato fatto con un’altra strada a due corsie parallela alla vecchia, e non con una a 4 corsie. Ma oltre alla Polonia, anche Irlanda, Spagna e altri Stati hanno saputo utilizzare i fondi europei come volano di sviluppo. Il caso isolato, e negativo, siamo noi. Gli investimenti pubblici in Italia passano attraverso il Comitato inter-ministeriale per la programmazione economica (CIPE). Nella scorsa legislatura il CIPE ha stanziato complessivamente 148 miliardi di Euro, cioè una media di 30 miliardi l’anno, in parte coperti da fondi europei. Ma il livello di erogazione effettiva rispetto a tali stanziamenti è assai più basso. Al contempo l’Italia è il primo beneficiario del Piano Juncker e della Banca Europea degli Investimenti, che lo gestisce centralmente. Per quanto piccolo solo nel 2017 ha investito oltre 12 miliardi di Euro, con contratti firmati per 11 miliardi, quindi con un livello di utilizzo effettivo molto elevato.

Lo spread dopo la fiducia al Governo è rimasto a circa 230 punti. Le previsioni sulla finanza pubblica si fondavano su uno spread intorno ai 160. In pratica, essendo il nostro debito del 130% rispetto al PIL, se lo spread si stabilizzasse intorno a quota 230 punti, spenderemmo quasi l’1% di PIL in più del previsto di interessi sul debito. In un quadro del genere una politica di investimenti a deficit rischia di produrre una crisi finanziaria seria – per non dire di una politica in deficit volta a finanziare misure diverse dagli investimenti, come la flat tax o il reddito di cittadinanza.

La soluzione per rilanciare gli investimenti è dunque ancora una volta l’Europa. Da un lato lavorando per usare bene tutti i fondi europei a disposizione. Dall’altro contribuendo in modo massiccio al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (il nome ufficiale del Piano Juncker). Infatti, i contributi nazionali all’EFSI vengono scorporati dal calcolo del deficit. Se il governo vuole davvero investire in infrastrutture e ricerca, potrà farlo senza aumentare il dato sul deficit e innervosire i mercati, contribuendo al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici. È questa la strada che il governo intende percorrere? E se non lo fosse: perché? Quali sono i benefici di una gestione meramente nazionale, che comporterebbe un aumento del deficit, maggiori tensioni sui mercati, e maggiori costi di servizio del debito? Gli stessi che hanno le regioni meridionali nello spendere meno soldi con le proprie regole, invece che più fondi, ma con le regole europee?

Oltre a sfruttare quello che c’è – Fondi europei ed EFSI – bisogna lavorare per costruire quel che manca: un bilancio ed un Tesoro federale dell’eurozona. Gli investimenti a deficit non vanno fatti a livello nazionale, ma europeo. Rendere l’UE in grado di garantire un livello di investimenti pubblici sufficiente a sostenere la crescita in modo da rilanciare l’occupazione è anche il modo migliore per rendere sostenibile il nostro debito pubblico. Va reso esplicito che il Tesoro federale non è la strada per arrivare alla mutualizzazione del debito, ma per evitarla. La mutualizzazione del debito non ci sarà mai, perché è giusto che ognuno ripaghi il debito che ha fatto da sé e che ha scelto da sé come utilizzare – in sostanza nessuno troverà mai un vicino disposto ad accollarsi il suo mutuo. Ma può e deve esserci una possibilità per l’Unione Europea di indebitarsi per sostenere gli investimenti. E siccome i settori su cui investire – infrastrutture, capitale umano, economia verde e circolare – li abbiamo decisi tutti insieme, allo stesso modo quei debiti è giusto che siano in solido. L’EFSI funziona in parte già così, facendo leva su obbligazioni della Banca Europea degli Investimenti. Un Tesoro europeo, sostenuto da un bilancio federale fondato su risorse proprie e una capacità di indebitamento limitata, sarebbe in grado di riportare gli investimenti pubblici europei al livello necessario. La posizione italiana nella precedente legislatura andava in questa direzione. Così come quella spagnola e portoghese. Pochi mesi fu firmato a Roma il 10 gennaio un documento congiunto degli Stati europei del sud che sposavano sostanzialmente questa linea. Sarebbe importante che prima del Consiglio Europeo di giugno il nuovo governo confermasse questa posizione. È quella che serve all’Italia e all’Europa.

@RobertoCastaldi

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